Viaggio nell’estetica delle Cover-Art di Musica Elettronica

Osservare con attenzione l’immaginario che abita le cover art degli album di musica elettronica è un’operazione che rivela un linguaggio ben definito: sin dalle prime sperimentazioni, le opere d’arte (e gli artisti) scelte per accompagnare i suoni distorti ed ipnotici dei sintetizzatori venivano selezionate con una cura particolare; per ogni musicista d’avanguardia, erano solite nascere collaborazioni con artisti altrettanto singolari, che sapessero rappresentare al meglio quelle sonorità nuove e difficilmente definibili. La musica elettronica, infatti, per tanto tempo si è trovata nell’etere incerto della ricerca di una definizione decisiva: bisogna adattare la tradizione al nuovo mezzo o rompere con i parametri del passato e creare qualcosa di totalmente nuovo? Il dualismo tradizione-innovazione, generalmente rappresentato dal confronto tra Moog e Buchla, è dovuto alle stesse caratteristiche dello strumento: i suoni prodotti da un sintetizzatore riecheggiano un passato lontano e perduto, ma sembrano allo stesso tempo provenire da pianeti inesplorati, con toni estremamente futuristici.

Sembra che il suono di un synth provochi un sentimento Asimoviano di “Nostalgia del futuro”, ed è per questo che nella sua traduzione visiva, l’ossimoro regna sovrano; questo etere antitetico è infatti tradotto in immagini distorte che rappresentano la convivenza di concetti opposti: materiale e immateriale, fisico e virtuale, naturale e artificiale, riconoscibile e irriconoscibile. Qualcosa di estremamente “Uncanny”: un corpo estraneo che sembra stranamente somigliante a noi; uno strumento alieno da adattare alle nostre note.

Ecco perché il Rendering e la Computer-Generated Imagery sono i linguaggi privilegiati: creare opere d’arte digitalmente è come comporre un’opera in divenire; qualcosa che contenga una mutabilità, pronta a trasformarsi in qualcosa di nuovo improvvisamente.

In questo articolo, un viaggio nelle collaborazioni tra musicisti e artisti visuali che hanno contribuito a plasmare un immaginario definitivo della musica elettronica.


Morton Subotnick e Anthony Martin: Silver Apples of The Moon (1967)

Quando si guarda la copertina di Silver Apples of The Moon, pietra miliare della musica elettronica nonché album rappresentativo delle prime sperimentazioni Buchla sulla West-Coast, sembra di trovarsi dinnanzi alla cover art di un cd di Warp Records. Eppure era il 1967, e Morton Subotnick era uno dei primi a comporre un album musicale interamente composto con un sintetizzatore. Forme indistinte, liquide, morbide, luminose si intrecciano su uno sfondo nero; l’uomo dietro la copertina di Silver Apples è Anthony Martin, uno dei più importanti artisti multimediali degli anni ’60: divenuto direttore creativo della culla musicale e psichedelica del San Francisco Tape Music Center, Martin focalizzava la sua ricerca sull’unione di media analogici e digitali, utilizzando softwares per la manipolazione delle immagini e presentando a musei come il MoMa o il Whitney Museum installazioni con giochi di luci e proiettori, manipolando la percezione umana con media immersivi. Senza Tony Martin, non avremmo avuto artist* come Pipilotti Rist o Nam June Paik. Subotnick, che desiderava scardinare, con il suo sintetizzatore, qualsiasi principio relativo alla musica composta prima di lui, sognava “un mondo senza più pianoforti e violini”, e Martin, inizialmente un pittore figurativo, era impegnato nello stesso compito relativo alle arti digitali. Le sperimentazioni nell’arte visuale e quelle nella musica si stavano incontrando per la prima volta per gettare le basi di un immaginario oggi iconico e inconfondibile.


silverapplespng



Aphex Twin e Chris Cunningham: “Come to Daddy” (1997)

La collaborazione tra Chris Cunningham e Aphex Twin ha inizio nel 1997 a Sheffield (UK), nel contesto dell’etichetta indipendente Warp Records, fondata da due amici dipendenti di un negozio di dischi. Il manifesto di Warp comprendeva il compito più ambito negli ambienti delle nuove tecnologie: dimostrare che, con i nuovi mezzi a disposizione, fosse possibile dare forma a un’estetica e a una corrente creativa che utilizzasse le tecnologie elettroniche come materia prima. Cunningham, addetto agli effetti speciali, aveva cominciato nel ’95 la sua carriera da regista di videoclip musicali con un video per gli Autechre, ma fu il video di Come to Daddy a determinare le linee guida della sua estetica: un inquietante gruppo di bambini con la faccia di Richard D. James, conosciuto con lo pseudonimo Aphex Twin (elemento che tornerà per l’artwork di Windowlicker nel 1999) vaga per un quartiere spaventando una vecchia signora, con l’aiuto di un mostro fuoriuscito dallo schermo di una TV abbandonata. La copertina riprende questo immaginario: i bambini, con i volti distorti e sorridenti, ti guardano fissi negli occhi. Le ispirazioni sembrano accingere al body horror di Cronenberg (Videodrome e il mostro dalla TV) o di Tsukamoto, in una dimensione orrifica abitata da personaggi che sembrano “cose”, anomalie, curiosi esperimenti genetici a metà tra realtà e incubo: la deformazione, le immagini trasmesse su schermi, la televisione e il “Deepfake”; l’immaginario di Cunningham è imprescindibile per le tendenze che susseguiranno nel mondo della musica elettronica.


2jpg

L’incursione dei delfini (1999)

C’è chi crede sia colpa degli esperimenti del neuroscienziato John C. Lilly, che consistevano nel somministrare dosi di LSD ai delfini, chi invece crede che l’immaginario sia stato scalfito irrimediabilmente dal videogioco Ecco The Dolphin del 1993, chi crede fosse un’ondata precorritrice della sottocultura Seapunk e c’è chi tuttora non riesce a darsi una spiegazione; tuttavia, intorno alla fine degli anni ’90, qualsiasi compilation di musica trance e dance aveva un delfino (o più di uno) raffigurato nella sua cover art. E non solo: l’ossessione per i delfini si traduceva anche in campionamenti del loro verso disseminati nelle tracce degli album. Fluid: The Album (1998) del disc jokey Dolphin’s Mind è uno degli esempi di questa follia collettiva; gli susseguono le compilation Dolphin Trance (1999) di DJ Crack, racchiuse in 5 volumi; l’album di Trance e New Age Ultra: Space Age Pyschedelic Trance Music della musicista giapponese Dream Dolphin; le compilation Dolphin’s Kiss e Trance Emotion dell’etichetta ZYX Music (2004-2008). Delfini viola o di un azzurro innaturale su scenari marini dalle grafiche imbarazzanti: l’aesthetic dei delfini sulle copertine di musica trance è pacchiana da fare tenerezza, così brutta da diventare bellissima. Uno dei primi esempi di delfini su una cover art risale al 1987 e appartiene a Dolphin Smiles, dei musicisti Steve Kindler e Teja Bell; è impossibile non notare le somiglianze con gli artworks di musicisti contemporanei che hanno giocato con questo strambo immaginario marino: Love In The Time Of Lexapro di Oneohtrix Point Never (ancora di Warp Records) creata da David Rudnick, che riutilizza il dipinto Destiny Ocean II del pittore Christian Riese Lassen o la reinterpretazione anime di Machine Girl per la copertina di RePorpoised Phantasies, che scherza con il gioco di parole intraducibile tra “Reproposed” (Riproposto) e “RePorpoised” (“Porpoise” è la parola inglese per “Focena”, cioè il nome di un mammifero somigliante al delfino). I musicisti contemporanei continuano a riproporci la fantasia di un’iconografia inspiegabile ma che continua ad attrarci, instancabilmente, tutte le volte.


trancedolphinpng


Fatima Al Qadiri e Timur Si-Qin: Genre-Specific Xperience (2011)

Secondo EP della musicista ed artista concettuale di origine Kuwaitiane Fatima Al Qadiri, Genre-Specific Xperience mescola suoni futuristici ad atmosfere sacrali (“Vatican Vibes”), e la sua cover art somiglia a uno scenario derivato dal world-building di un universo in Virtual Reality. Dietro la copertina, infatti, c’è Timur Si-Qin, artista di origini tedesche e mongolo-cinesi (nel 2018 in mostra allo Spazio Maiocchi a Milano) che lavora con i nuovi media, la scultura e la realtà aumentata. Il tema principale affrontato nelle opere di Timur Si-Qin? La “morfogenesi”, la creazione corporea di paesaggi sublimi e forme che si trasformano. La “morfogenesi” –dice Timur– «si riferisce al processo attraverso il quale le cose nel mondo prendono forma. […] Modelli che non sono necessariamente prevedibili, ma sono esteticamente belli e misteriosi». Ancora una volta, passato e futuro, naturalezza e artificio si incontrano in un discorso che riesce a coinvolgere arte contemporanea e musica.

261376_1jpg


Arca e Jesse Kanda: Mutant (2015)

La collaborazione tra Arca e l’artista, regista, animatore e musicista canadese Jesse Kanda è uno degli incontri che, in modo più influente, caratterizza le ultime tendenze dell’arte visuale legata alla musica elettronica. Diretto successore di Chris Cunningham, Kanda crea personaggi simili a fantasmi, mostri, alieni, feti e altri mix di creature provenienti da un subconscio di allucinazioni e viaggi psichedelici. Il suo lavoro con la musicista venezuelana Arca è il più celebre insieme a quelli con le musiciste Bjork e FKA Twigs, ed ha visto i due artisti collaborare per artworks e video musicali. I due, che hanno collaborato spesso anche tramite i loro progetti musicali, hanno costruito un immaginario che esplora la materia in una sorta di “exploitation” corporea delle textures e delle forme; nella copertina di Mutant (2015), i personaggi morbidi e traslucidi che si fondono l’uno nell’altro ricordano il feto di Eraserhead di Lynch misto a Cabal di Clive Barker.

8 jpg


Lorenzo Senni e Ed Atkins: Persona (2016)

Dopo aver visto Ribbons (2014) cortometraggio animato di 13 minuti, il musicista Lorenzo Senni decise che avrebbe voluto mettersi in contatto con il video-artista Ed Atkins per realizzare la copertina del suo album Persona, il suo debutto con Warp. Il concept dell’album è quello di un “rave voyeur”, ovvero di una persona che guarda, come dietro un vetro, le vite degli altri che gli scorrono davanti: è la sensazione provata per molto tempo dallo stesso Lorenzo Senni, ai suoi primi incontri con la trance. Senni seguiva gli amici ai rave, ma rimaneva sobrio, come da osservatore. L’artwork che fa da copertina a Persona è proprio questo: un uomo, gigante, che guarda attraverso un oblò, o uno spioncino, qualcosa che sta accadendo dall’altra parte. L’immagine generata dai computer diventa per Atkins, artista affermato e professore al Goldsmiths College di Londra, un mezzo per immaginare una realtà grottesche e piani emotivi complessi (malinconia, depressione, paura della morte), in cui è spesso una figura maschile a fare da protagonista.


a2963456926_10jpg



Oneohtrix Point Never e Nate Boyce: We’ll take it - from Age Of (2018)

«Sono interessato in una concezione neo-materialista dell’informazione digitale. È malleabile e plastica come ogni altro materiale, e penso che molti artisti stiano cominciando a fare i conti con le implicazioni di ciò» ha spiegato, in un’intervista per Dazed, Nate Boyce, CGI artists, scultore, musicista e assiduo collaboratore di Oneohtrix Point Never, pseudonimo di Daniel Lopatin, uno dei personaggi più influenti della musica elettronica contemporanea. L’informazione digitale, il Coding, il render che diventa scultura, che fuoriesce dallo schermo e si interfaccia al pubblico come il mostro dalla televisione in Come to Daddy. I video e le immagini del duo Boyce-Lopatin sono veri e propri manifesti del neo-materialismo informatico di cui parla l’artista: nel video di We’ll take it, singolo estratto dall’album Age Of, l’avatar di un uomo si fonde alla sua automobile in un vortice di flash ed esplosioni, come in un videogioco cyberpunk. «Non mi piace l’idea di entrare all’interno di un video» continua Boyce, «mi piacerebbe di più una situazione alla Videodrome, in cui è l’immagine ad uscire fuori in rilievo, io però non voglio esserne completamene risucchiato». Se fino ad ora siamo stati noi ad entrare nel mondo digitale fondendoci ad esso, adesso forse è il turno della dimensione virtuale a farsi spazio tra le masse e i volumi della materia.


OPN_WellTakeItEP_Artworkjpg


Orbital e John Greenwood: Monsters Exist (2018)

Per il loro nono album Monster Exists, il duo britannico di EDM Orbital ha deciso di prendere in prestito una delle “nature morte” del pittore inglese John Greenwood: le opere di Greenwood, che ricordano la pittura fiamminga, Hieronymus Bosch e Mark Ryden, sono mosaici in cui elementi di una flora e una fauna fantastiche si intersecano per creare oggetti e personaggi dalle sagome nuove, in dipinti statici che si fa fatica a non vedere come in continuo movimento. Il nome della sua mostra I’ve got a massive subconscious (“Ho un enorme subconscio”) ci suggerisce una dimensione onirica interiore da cui emergono le creature raffigurate dal pittore, spesso in spazi angusti e claustrofobici, come se si stesse guardando a una cella dai confini delineati. “Non ti sei svegliato da un sonno, ma da un sogno precedente, e quel sogno sta dentro un altro sogno, e così via, all’infinito…” recita la frase di Jorge Luis Borges sul sito web del pittore: un sogno dentro un altro, difficilmente distinguibili tra loro, come in un vortice di loop e suoni sintetizzati.


10jpg


Shygirl, Hendrik Schneider e Misha Notcutt: ALIAS (2020)

ALIAS, il primo progetto di Shygirl fuori dall’etichetta NUXXE (ma che mantiene collaborazioni con il suo fondatore e amico Sega Bodega), è uno dei progetti più interessanti del panorama musicale contemporaneo; Il titolo “Alias” deriva da una serie di alter ego immaginati dalla musicista, che prendono il sopravvento in momenti diversi della tracklist dell’EP. Il concetto di identità è al centro delle tracce così come lo è nell’aspetto estetico del progetto: la direzione creativa, guidata dalla creative director Misha Notcutt e dal fotografo Hendrik Schneider, fa leva su una sensazione di depersonalizzazione veicolata da parti del volto umano isolate dalla loro ordinaria struttura e situate in una distesa di pelle come fossero mutilazioni: l’immaginario, che ancora una volta ricorda il body horror di Cronenberg o il film Occhi senza volto (1960) mescola elementi riconoscibili (un piercing, delle ciglia finte, degli elementi dal corpo umano) e li decontestualizza disorientando lo spettatore (lo stesso processo utilizzato in alcune delle copertine della band di Sacramento Death Grips), in una serie di fotografie che ricordano l’estetica\poetica di Sophie (anch’essa presente nell’EP) e la ricerca di un’identità in senso non solo astratto, ma carnale e materiale.


aliasjpg



Arianna Caserta