MY ART ID #1: Come "Hong Kong Express" ha stravolto le mie idee sul cinema e sulla vita

Dovevo essere poco più che ventenne – e fatta tutta quanta la trafila letteraria che porta a quegli anni, Salinger, Kerouac, il Dedalus di Joyce, in sintesi il bildungsroman – quando vidi per la prima volta "Hong Kong Express" (1994), di Wong Kar-wai, che fu per me una specie di rivelazione, e cambiò assolutamente il mio modo di vedere e di fotografare, capovolgendo quel che pensavo sino ad allora di buona sceneggiatura e buon montaggio, di ambiente, luce, tecnica, politica, colonna sonora, tutto. Ma fossero soltanto i romanzi di formazione e una cinefilìa ancora in erba! La mia prima storia d’amore, infatti, era finita da qualche mese – finita malissimo! - ed ero triste, col cuore spezzato, di colpo silenzioso con amici e familiari, buffo insopportabile e scontroso. È questo banale motivo biografico – una sorta di peccato veniale, perdonabile, quello di appiccicare e ritrovare il proprio vissuto nelle opere – che mi fece riconoscere subito, senza mediazioni, nel sentimentalismo così comico e commovente di Takeshi Kaneshiro, agente 223, che mangia ananas sino all’indigestione in una sfida col tempo, elucubrando sotto al chiostro di kebab e caesar salad, cercando disperatamente una traccia della sua ex fidanzata, che lo ha lasciato e non vuole più saperne. Quello era stato mutatis mutandis anche il mio sentimentalismo, ed era piacevole, e in fondo mi dava molto sollievo l’aver trovato un film che raccontasse così bene i miei problemi. Addirittura mi sembrò piacevole, in quel momento, aver sofferto per amore.

Certo, conoscevo Wong Kar-wai già per 2046 e In The Mood For Love; eppure, era dai tempi dell’esordio di Godard che non mi capitava davanti un film con tante libertà formali, tanta innovazione da farci un trattato, consegnarlo ad aspiranti registi e dire loro “tenete, girate roba così”. Negli anni devo aver rivisto il film dozzine di volte, amandone aspetti sempre diversi, notando particolari a cui, nelle visioni precedenti, non avevo fatto caso, o dato peso: che so, la struggente solitudine dei personaggi (l’amato Antonioni) , i rimandi ai b-movies, l’elemento nouvelle vague, la megalopoli ultraveloce tutta notte e neon, il modo sublime con cui viene rappresentato quella ineluttabile legge dell’uomo che è tempo, è fatto di tempo; negli anni ho ricercato tutte le versioni, notate le differenze di doppiaggio, i piccoli tagli; ho rivisto singole sequenze del film e ascoltato mentre guidavo la playlist in loop (Faye Wong con "California Dreamin'" vi ricorda qualcosa?).

Pochi mesi fa l’ho rivisto al cinema, durante il ciclo di restauri della filmografia di Wong Kar-wai, in una piccola sala indipendente. E’ stato divertente. Il film è trascorso come trascorre una sinfonia, ogni cosa arrivava alla musica, sapevo la scena successiva e pure questa arrivava come una sorpresa. Sì, è stato davvero divertente! Dopo, proprio come la prima volta, ho appiccicato il mio vissuto all’opera, e ho fatto dell’esistenzialismo con il mio kebabbaro di fiducia, sotto il suo chiostro, confessandogli le mie vicissitudini più recenti; e sono stato felice.